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lunedì 19 agosto 2013

martedì 6 agosto 2013

Scampagnata verso la malga.

Siamo partiti di buonora, eravamo una decina, il più anziano aveva novanta anni e il più giovane quattordici, alcuni portavano con sé il classico bastone e un piccolo zaino.               
A piedi ci siamo introdotti in un sentiero che portava alla malga Toraro, posta in una piccola altura sul monte omonimo.  L’itinerario prevedeva un percorso di circa otto-dieci chilometri.            
Verso le ore nove, nel tortuoso sentiero accidentato e in salita, avevamo già camminato per circa un chilometro. Di tanto in tanto ci fermavamo all’ombra di qualche raro cespuglio, per riposarci, al riparo dal cocente sole. Il cappello che avevamo in testa, non attutiva la veemenza dei raggi che ci invadevano tutt’intorno. In quelle pause il cane lupo di Bruno non si fermava, ma andava su e giù, come volesse perlustrare, per nostro conto, la zona circostante.              
Recuperate le forze, riprendevamo il cammino. Con il trascorrere del tempo, chiedevamo, con periodicità sempre più frequente, al novantenne Enrico se trovava delle difficoltà a proseguire. Lui rispondeva: “Tutto a posto, continuiamo tranquilli“.
Da inesperti  in quell’avventura, non avevamo portato con noi, né viveri né bevande, solo qualche indumento per proteggerci da possibili acquazzoni. Pensavamo fosse una leggera scampagnata. Nel cielo non vi erano nubi, pur tuttavia ogni tanto osservavamo la volta celeste per vedere se ve ne fossero in arrivo. A quell’altezza, 1950 metri, un temporale poteva svilupparsi in poco tempo e ci avrebbe sorpresi allo scoperto, in mezzo alla vegetazione e alle scoscese rive, privi di qualsiasi riparo.
I bastoni, oltre ad un lieve supporto, ci permettevano, qua e là di frugare, in mezzo all’erba per scoprire dei funghi nascosti. Tale ricerca era effettuata senza interrompere il passo. I numerosi tentativi, compiuti dagli astanti, non hanno dato alcun esito positivo.
Avevamo percorso qualche chilometro quando la stanchezza incominciava a farsi sentire. Non vi erano indicazioni e le strisce colorate dipinte nei massi di roccia, che di norma indicano il percorso del sentiero, non ci erano utili per stabilire a quale distanza si trovava la nostra meta. Ormai non potevamo tornare indietro erano già trascorse le 11,30 del mattino.               
Mi accostai a Enrico per verificare se era in grado di proseguire. Pur affaticato, non presentava segni di cedimento. La sua ferma volontà era di arrivare a destinazione. Dopo un paio di chilometri, è subentrato in noi lo sconforto. Nessuna casera, o baita all’orizzonte. Dopo un’ennesima sosta, un po’ prolungata rispetto alle precedenti, abbiamo deciso, costi quel che costi, di proseguire.  Ancora un chilometro, un po’ meno in salita e, alla fine, superata una tenue curva, abbiamo scorto là in alto, a una distanza valutabile in due chilometri, la malga. Le nostre forze, quasi per incanto hanno ripreso vigoria. Più ci avvicinavamo e più la malga, per l’effetto ottico, aumentava di dimensioni. Era collocata sopra un breve altopiano ed era attorniata da una mandria di mucche. Lasciate allo stato brado. Quando abbiamo imboccato la devianza che portava al casolare, a destra del sentiero che stavamo percorrendo, il viottolo pietroso era ornato da numerose macchie  circolari piene scure, erano gli escrementi delle mucche, che si erano essiccati. Camminavamo a zig zag per evitare di metterci i piedi sopra.  Uno della comitiva, distratto, ci scivolò  su, e, per cinquanta metri si è strofinato la scarpa sulla roccia e sull’erba per levarsi il concime non gradito. Quando cercavamo di superare l’ostacolo, una miriade di mosche si sollevava, dirigendosi verso ciascuno di noi, tanto che dovevamo gesticolare con le mani per allontanarle in modo che ritornassero da dove erano partite.
L’ultima salita è stata la più faticosa e, finalmente siamo arrivati! Un fuggevole sguardo intorno ci ha fatto scoprire delle grosse margherite, con un alto gambo, non erano altro che delle grandi  mazze da tamburo (i lepiota procera), funghi che prediligono le piane ben fertilizzate. Nessuna voglia di fermarci per raccoglierle, eravamo stremati!
La fame e la sete si facevano sentire, alcuni di noi avevano dei dubbi che potesse essere appagata in quell’ambito uggioso e solitario.
Due uomini di circa quaranta anni ci vennero incontro. Sembrava gradissero il nostro arrivo. Un modo, forse, per interrompere l’ isolamento attraverso inaspettati  contatti sociali.
La malga era dotata di grossi recipienti in lamiera arrugginita, senza coperchio, usati per il recupero dell’acqua piovana, per far fronte alle necessità di vita quotidiana. I vasi erano pieni quasi fino all’orlo. Nella superficie vi erano numerosi insetti, soprattutto mosche, in parte senza vita. Un po’ più sotto, vi era un bacino naturale, ricavato nel terreno, una pozza, in cui gli animali avrebbero potuto, secondo necessità, abbeverarsi. Infatti, tutto intorno vi erano le impronte di numerosi zoccoli e molti escrementi.
A lato della casa vi erano i locali, dove si preparava il formaggio che, al momento, non abbiamo voluto visitare.
Abbiamo chiesto se si poteva mangiare e bere qualcosa. Hanno risposto di sì. Hanno portato del vino in recipienti in vetro da due litri, del merlot, molto scuro e, con delle caraffe,  dell’acqua. Nessuno ha curato la distribuzione del suo contenuto. La cucina era invasa dalle mosche e, dopo qualche istante, alcune stavano nuotando entro la caraffa.                
Ci hanno offerto del pane biscotto, dalle grosse forme, estraendolo da un sacco di juta, poi, una grande “soppressa” (grosso insaccato di maiale Veneto) e del formaggio, di diversi tipi. Abbiamo mangiato e bevuto, tanta era la fame e la sete, senza proferir parola, con avidità e con piacere, apprezzando il desinare. Perfino il cane ha mangiato la parte finale della soppressa e qualche pezzo di formaggio, ed è stato il solo che ha fatto l’onore alla casa, bevendo l’acqua posta  in una piccola bacinella.
Abbiamo trangugiato tutto. Le mosche erano tante, ma ormai non ce ne accorgiavamo. Alla fine ci hanno proposto di farci il caffè. Uno dei proprietari stava per prendere da una mensola delle tazzine per versare la bevanda, lo abbiamo fermato, giusto in tempo, dicendogli che il caffè lo si poteva mettere nel bicchiere di plastica dove avevamo bevuto il vino. Così avrebbe evitato di lavare le chicchere. Una ipocrisia bella e buona. Era un modo per non bere nelle tazzine in ceramica bianca, che contornate da mosche, sembravano essere diventate nere.           
Hanno fatto il caffè con una grande moka posta sopra il piano di una cucina economica accesa.
Durante il pranzo è arrivato un viandante è entrato nella sala, dove stavamo mangiando, e con accento veneziano, ha chiesto a un dei proprietari se poteva fargli un caffè. Gliel’ha servito, dopo aver scacciato le numerose mosche, su una tazza in ceramica. Appena bevuto, se n’è andato senza chiedere il conto o perlomeno di ringraziare. 
Terminato il pranzo e pagato il conto, siamo andati a visitare il luogo in cui producevano il formaggio.
Prima di inserire il caglio nel liquido, posto in un grande calderone, con un guadino levavano le mosche sulla superficie del latte, poi via con il fuoco. Un gran fumo ci ha invasi tanto che alla spicciolata e in fretta siamo usciti da quell’ambiente. Nessuno di noi  ha comprato del formaggio.
Abbiamo gironzolato intorno alla malga per una mezz’ora. Uno dei vaccari, ci informò che, durante un temporale, un fulmine aveva ucciso una mucca e un’altra era caduta in un burrone, per entrambe non aveva potuto recuperare nulla. Ci disse che aveva fatto una gara per avere in affidamento quel territorio a pascolo. Per le vicissitudini avute in quell’anno, aveva deciso di non partecipano alla successiva competizione per l’ assegnazione della concessione.
Dopo aver salutato i gestori di quell’oasi sperduta, abbiamo incominciato a percorrere la strada del ritorno, che essendo spesso in discesa, non era faticosa. Infatti, nelle soste approfittavamo per guardare il paesaggio e la vegetazione circostante, ciò che avevamo trascurato durante la salita. Eravamo contenti dell’escursione e non ci sentivamo stanchi. In poche ore ci siamo trovati all’inizio del sentiero da dove eravamo partiti.
E’ stata, questa,  un’occasione per rafforzare i rapporti di conoscenza e di amicizia reciproca.  
Alcuni dei superstiti di quella gita, nelle reminiscenze del passato,  esprimono il desiderio di ritornare in quei luoghi sperduti ma ideali per apprezzare il paesaggio, il silenzio e l’atmosfera affascinante che promanano.
                                                                                                                                             Ilario Menegaldo
 
 

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