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IN QUESTO SITO SONO INSERITI ALCUNI VIDEO E FOTO DELLE MIE OPERE E MOSTRE DI PITTURA AD OLIO, RECENTI E MENO RECENTI, SU ALCUNI QUADRI MI SOFFERMERO', DI TANTO IN TANTO, AD ILLUSTRARNE I CONTENUTI E LE TECNICHE ADOTTATE.
INSERIRO' INOLTRE QUALCHE APPUNTO TRATTO DAL MIO DIARIO E ALCUNI VIDEO DEI MIEI VIAGGI.
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giovedì 30 settembre 2010
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lunedì 20 settembre 2010
RECENSIONE DEL PROF. UMBERTO BENAZZATO
In calce ad uno dei suoi quadri che ritrae una pipa, René Magritte (1898-1967) scrisse: "Ceci n'est pas une pipe" (questa non è una pipa) per invitarci ad una riflessione molto semplice: la rappresentazione non è l'oggetto che essa rappresenta; l'oggetto dipinto noi lo vediamo attraverso gli occhi e la trasfigurazione che l'artista ci propone.
I quadri di Ilario Menegaldo ci mostrano paesaggi che ad una prima impressione sembrano familiari, noti, già visti. Ci mostrano i nostri fiumi, i nostri monti, la nostra campagna, le nostre case, le nostre città, le persone che potremmo incontrare tutti i giorni.
Ma potremmo pensare: una foto od un filmato potrebbero fare meglio!
Il fatto è che noi non vediamo nei dipinti di Ilario una rappresentazione del vero. Ciò che Ilario dipinge prefigura il messaggio che egli ci vuole trasmettere. Certi scorci che ci potrebbero sembrare simili sono invece diversissimi nelle vibrazioni del colore date dalla luce e mediate attentamente dall'artista. Ogni quadro fa nascere in chi lo guarda sensazioni differenti. Con la sua sensibilità l'artista toglie ciò che è superfluo ed aggiunge quanto è necessario per la poesia e l'equilibrio della composizione, per la trasmissione di un messaggio, per creare un'affinità tra osservatore e opera.
Infatti noi vediamo una trasformazione simbolica filtrata dalla fine sensibilità dell'artista che riesce a trasmetterci con colori sapientemente creati e calibrati e con pennellate meditate ed esperte , un sentimento inconscio, impalpabile ma presente. Ogni dipinto diventa così un simbolo che "quasi sembra osservarci con uno sguardo familiare", come direbbe il grande poeta Charles Boudelaire (1821-1867) che così continua:
"Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité
Les parfums, les coleurs et les sons se répondent"
Cioè: "Come lunghi echi lontani che si fondono in una misteriosa e profonda unità vasta come la notte e come la luce, i colori, i profumi ed i suoni si corrispondono".
Così, a volte, osservando ed ammirando i quadri di Ilario, ci sorprendiamo quasi a percepire il profumo dell'aria, di un fiore, a sentir lo stormire delle fronde, il canto o il silenzio della natura immersa in una atmosfera fantasticamente colorata.
E' proprio il dipinto che parla alla nostra anima. E' una emozione che (esso) ci sussurra.
Sta a noi ascoltare ed ammirare.
Prof. Umberto Benazzato (04/09/2010)
domenica 19 settembre 2010
sabato 18 settembre 2010
FATTI VERI – IN OSPEDALE (tratto dal mio diario)
FATTI VERI – IN OSPEDALE (tratto dal mio diario)
Mio padre ha avuto un primo ricovero in data 28/12 ed è stato ospitato in una camera singola del reparto geriatria. E’ stato dimesso in data 07/01.
In questa prima degenza il personale medico ha risposto con diligenza alle richieste sul suo stato di salute. Devo comunque evidenziare che, al pronto soccorso, gli avevano messo la maschera dell’ossigeno (per difficoltà respiratorie) al di sotto della quale vi era una sacca gonfia e trasparente (forse in nailon) piena d’ossigeno o d’aria. E’ giunto in reparto geriatria in portantina, con la maschera collegata ad una bombola d’ossigeno. E’ stato messo a letto. Durante tale operazione ho atteso assieme a mia moglie fuori della stanza. Quando ci hanno permesso di entrare nella camera, mio padre era a letto ed indossava ancora la maschera dell’ossigeno. Ha mormorato più di una volta che gliela levassi. Mi sono avvicinato e gli ho detto: “la devi tenere perché ti aiuta a respirare, con questa ti viene erogato l’ossigeno”! Dopo circa 10 - 15 minuti mi sono accorto che la sacca, al di sotto della maschera, era priva d’aria e i due lati più grandi che la componevano si erano uniti. L’ho fatto presente a mia moglie che, con pronta intuizione, ha seguito il percorso del condotto della maschera ed ha scoperto che il lato che avrebbe dovuto essere collegato alla bombola o all’erogatore dell’ossigeno terminava in mezzo alle coperte. Ho provveduto immediatamente a togliergli la maschera e, subito, ho visto che il respiro di mio padre era divenuto un po’ meno faticoso. Poteva respirare liberamente senza costrizioni!
Ho cercato l’infermiera che l’aveva sistemato a letto e le ho fatto presente quanto era accaduto. Mi ha risposto: “non succede niente”, ho ribadito che l’ossigeno gli veniva somministrato perché ne aveva bisogno. Mi ha nuovamente risposto: “non si preoccupi non succede niente”.
Dopo un po’ gli ha iniettato in vena qualcosa (non ne sono a conoscenza) presumo del lasix poiché oltre alle difficoltà respiratorie e portatore di pacemaker gli era stata rilevata una trombosi (aveva una gamba gonfia). Il liquido gli è stato inoculato in nostra presenza con una rapidità così elevata che mio padre dal dolore ha gridato e ha fatto un sobbalzo nel letto. Più tardi la stessa infermiera ha appeso nell’apposito supporto un flebo di quelli piccoli, forse dell’antibiotico e lo ha collegato alla vena. Il contenitore si è svuotato in meno di circa dieci secondi.
Nell’ora di cena è entrata la stessa infermiera e ha fatto presente che, una volta che gli avevamo dato da mangiare, gli dovevamo mettere la mascherina dell’aerosol. Ci ha precisato di aver predisposto tutto, era sufficiente che gli mettessimo la maschera e premessimo l’interruttore della corrente elettrica.
Terminata la cena abbiamo provveduto ad eseguire l’incombenza. Dopo un po’ ci siamo accorti che non si vedeva nessun vapore ed abbiamo costatato che la cannula non era collegata all’aerosol.
Senza richiamare l’infermiera, abbiamo provveduto a collegarla all’apparecchio.
Per fortuna nelle successive visite non l’ho più incontrata. L’ho rivista solo il giorno delle dimissioni di mio padre.
Al momento delle dimissioni ho notato vistosi e parecchi ematomi sulle braccia, sulle mani e sulla pancia di mio padre e addirittura e, non so spiegarmelo, sulla schiena.
Nella mattinata ho sentito il medico in merito allo stato di salute di mio padre, il quale, dopo avermi fatto un quadro complessivo in cui si trovava, mi ha informato che nel pomeriggio alle ore 18,00 sarebbe stato dimesso. Sarebbe stato portato nella propria abitazione con l’autoambulanza. I familiari potevano tranquillamente aspettarlo a casa. Le persone incaricate avrebbero provveduto a farmi avere la cartella clinica e la lista dei medicinali necessari per il proseguimento della cura. Con gli antibiotici ha inoltre precisato: “Abbiamo terminato proprio oggi e non sono più necessari”.
A pranzo l’abbiamo aiutato a mangiare e poi abbiamo prelevato dall’armadietto e, portato via, tutte le sue cose. Gli abbiamo lasciato una maglia in lana pesante sopra il letto ed abbiamo chiesto al personale in servizio di farla indossare nel tragitto verso casa. Ciò ci è stato ampiamente assicurato.
Ci è giunta nel pomeriggio dall’ospedale una telefonata che per necessità contingenti, in attesa del trasporto, sarebbe stato messo con il letto in corridoio. E’ rimasto lì per oltre cinque ore. Subendo il transito della gente e l’aria della vicina porta d’entrata. Con altra telefonata l’ospedale verificava l’indirizzo. Alle diciotto lo aspettavamo a casa e siccome non arrivava eravamo un po’ in pensiero. E’ passata circa una mezz’ora e ci è giunta un’altra telefonata. L’autoambulanza stava girando per la Via Zanella anziché per il vicolo. Finalmente l’automezzo è arrivato. Gli avevamo aperto il cancello perché entrassero.
Si sono fermati sulla strada e con la barella l’anno trasportato all’interno della nostra abitazione al piano terra. Fuori faceva un freddo pungente. Mio padre non indossava la maglia di lana. Era stata messa sotto la testa come un cuscino. Aveva sopra di sé un lenzuolo e, forse, una leggerissima coperta.
Era un po’ disorientato e ci è voluto un po’ per capire che era a casa.
L’abbiamo seduto sulla sua poltrona e all’ora di cena gli abbiamo somministrato il pasto. Ha mangiato normalmente.
Alla fine gli abbiamo acceso la televisione e lui si è messo le cuffie per sentirci meglio. Non dormiva ma seguiva attentamente le notizie. Quando gli ho chiesto se voleva coricarsi, mi ha detto aspettiamo ancora un po’. Ho atteso ancora una mezz’ora, quindi con la sua collaborazione l’ho messo a letto.
Il mattino l’ho portato in bagno ed eseguito le operazioni di “routine” (cambio del pannolone, ecc.), poi l’ho fatto sedere sulla sedia, in cucina. Della colazione ha voluto solo il tè. Quindi ha chiesto di essere riportato a letto.
Ci siamo accorti che su un braccio aveva un grosso batuffolo di cotone macchiato di sangue e tenuto stretto da un nastro adesivo. Abbiamo cercato di toglierlo con delicatezza e, una volta rimosso, abbiamo visto che era stato applicato dove in origine era la sede dei flebo, sanguinava ancora abbondantemente. Abbiamo dovuto mettere sulla stessa sede una garza sterile con un cerotto.
L’ho lasciato in custodia di mia moglie e mi sono recato dal medico, con le indicazioni dell’ospedale per le prescrizioni dei necessari medicinali. Al mio ritorno sono stato informato che aveva rimesso. Abbiamo fatto un tentativo per cambiarlo, senza riuscirci, non si sosteneva sulle gambe. Gli abbiamo misurato la temperatura. Il termometro segnava 39,2 linee. Per lo stato di salute in cui si trovava ed essendo stato appena dimesso dall’ospedale abbiamo ritenuto di chiamare il medico di base. Il medico senza tentennamenti ha prescritto il ricovero in ospedale.
Abbiamo chiamato l’autoambulanza, e, una volta arrivata, il personale addetto ci ha fatto capire in modo implicito ma comunque palese che a 103 anni compiuti forse non era necessario il ricovero.
Pur non evidenziando i miei sentimenti sono stato molto rattristato per la scarsa sensibilità dell’operatore. L’età non può essere il parametro per valutare l’entità dell’umanità da corrispondere ad una persona. La frase, pur essendo stata espressa in modo velato mi ha fatto male. Come si fa a non essere sensibili in una situazione simile e dire ad un figlio, che da una vita vive con il padre, che “non era necessario!
E’ stato comunque trasportato al pronto soccorso dell’ospedale ed è stato fatto entrare in ambulatorio quasi subito (poiché aveva il codice rosso). All’interno è rimasto circa cinque ore. Nessuna notizia trapelava all’esterno. Mi trovavo in un forte stato d’ansia. Ad un certo momento mi sono deciso, di entrare dalla porta laterale ed ho chiesto ad un infermiere dove fosse un uomo di 103 anni. Lo stesso ha pronunciato un numero di ambulatorio che, al momento, non ho esattamente recepito. Mentre cercavo con lo sguardo di individuare la portantina dove era stato sistemato mio padre, senza peraltro trovarlo, un’infermiera con tono sostenuto mi ha detto: “Guardi che queste non sono le vetrine di un negozio”. Avrebbe dovuto capire la mia ansia e, magari con meno arroganza chiedermi chi o cosa stavo cercando. Un medico, alla domanda su notizie di mio padre, gentilmente mi ha risposto che il caso era trattato dalla sua collega. La Dottoressa, poi interpellata mi ha detto che a breve lo avrebbe visitato. Sono uscito nel corridoio in attesa degli eventi. Dopo qualche secondo ho incontrato il medico che mi aveva dato l’indicazione, il quale, rivolto verso di me ha detto: “Risolto il caso?” Si ho risposto. Grazie. Ho pensato, questo è un buon modo di comportarsi e mi ha un po’ rassicurato.
Dopo circa venti minuti sono stato informato che mio padre sarebbe stato trattenuto e ricoverato.
Più tardi, dopo una sosta in corridoio in attesa dell’arrivo dei barellieri, è stato portato in una stanza a sei letti nel reparto geriatria uomini e messo nel n. 22. Al pronto soccorso gli avevano inserito, nella vena del braccio destro, l’ago in cui fanno confluire, all’occorrenza, i liquidi dei flebo.
Dopo alcuni minuti è stato visitato dal medico e, poi, il medico mi ha accolto con mia moglie in ambulatorio. Ci ha informato che avrebbe curato mio padre come fosse una broncopolmonite e avrebbe cercato subito di fargli scendere la temperatura. Questo modo di fare ci ha molto rasserenati.
Il giorno successivo ho notato che a mio padre avevano inserito un altro ago per i flebo nel braccio sinistro. Per negligenza il personale ne aveva infilato un altro senza verificare l’esistenza del primo.
Ad un certo punto gli è stato inserito un catetere e tolto circa dopo 2ore e mezza. Probabilmente senza valutare in modo professionale la validità dell’intervento.
Tanto è vero che quando mio padre faceva la pipì mi diceva che gli faceva male.
Ero a fianco al letto di mio padre e gli stavo dando da mangiare. Ai piedi del letto c’era una targa in plexiglas con la scritta: dieta leggera. Mio padre aveva difficoltà a deglutire, apriva la bocca e una volta introdotto un mezzo cucchiaio di minestra dovevo chiedergli di mandarlo giù, questo ad ogni cucchiaio (da tener presente che non era la prima volta che davo da mangiare a mio padre). E’ entrato il medico (donna) per vedere l’ammalato a fianco il letto di mio padre. Avendo visto le difficoltà in cui si trovava mio padre, mi sono permesso di chiedere come stava. La richiesta aveva l’intento di trattenere un momento la Dottoressa per spiegarle la condizione di mio padre. Questa, invece, senza voltarsi, mi ha detto. “un po’ meglio”ed è uscita. Un po’ amareggiato, ho concluso parzialmente la somministrazione del pasto e siccome mio padre mi chiedeva dell’acqua ne ho dato qualche sorso. Avendo visto mio padre un po’ in difficoltà ho chiamato l’infermiera, una biondina con i capelli corti, e, questa, con un’altra collega con un sondino e con un apparecchio che si trovava già a fianco del letto ha cercato di levargli i liquidi che aveva introdotto. Operazione che non ho potuto seguire perché mi hanno fatto uscire.
Terminata l’aspirazione l’infermiera è andata a chiamare il medico (donna), non so cosa le abbia riferito, fatto sta che quando è entrato ha inveito in modo quasi assurdo contro di me. Dicendomi alla fine: “A causa sua ora è grave”. Subito dopo, hanno levato la targa ai piedi del letto è l’hanno sostituita con una con scritto “a dieta”. Mi sono trovato in uno stato di frustrazione tale che alcune lacrime, mi hanno abbondantemente bagnato il volto. Mi sentivo colpevole di una cosa che avevo fatto nel solo interesse di mio padre. Mi sono chiesto, se non poteva mangiare perché hanno messo quella targa? Perché gli hanno portato il cibo? Perché non hanno informato il familiare che lo assisteva? Perché non hanno provveduto loro ad alimentarlo?
Dopo un po’ è entrata un’infermiera che non avevo mai visto, gli ha inserito un flebo, probabilmente di alimentazione ed avendo visto il mio stato di prostrazione, ha spiegato che forse non dipendeva da me ma poteva essere una concausa. Ha precisato di non essere medico. Ho molto apprezzato, in quel critico momento, la professionalità e la sensibilità di quella ragazza.
A causa dei turni di lavoro dell’ospedale quel medico non l’ho più rivisto.
Quello subentrato è stato più disponibile, ad eccezione di una sola volta che ad una domanda di come stava mio padre mi ha risposto: “Lo vede anche lei come sta”!
Era appena terminata l’erogazione di un flebo quando mi sono accorto che il sangue era risalito sulla cannula per circa dieci o 20 centimetri, ho agito sull’apposito interruttore per chiuderlo, dopo di che ho approfittato della presenza di un’infermiera che si stava occupando del paziente del letto accanto, per chiederle, se quando aveva finito poteva togliergli il flebo. Questa borbottando sotto voce ha detto: “Che rottura di scatole”. Ha guardato l’apparecchiatura e poi ha proferito: “Lasciamolo lì perché più tardi ne metteremo un altro” e se ne è andata. Per oltre tre quarti d’ora ha dovuto star fermo con il braccio perché aveva l’ago collegato.
Negli ultimi due giorni mio padre respirava con la bocca aperta, aveva addosso la maschera dell’ossigeno ed aveva gli occhi chiusi. Ho chiesto ad un’infermiera, è in coma? Questa mi ha risposto, forse è l’effetto della morfina.
Il mattino dell’ultimo giorno era presente, mi ha riconosciuto e verso le ore dieci ha salutato mia moglie con un “ciao”. Lamentava di tanto in tanto qualche dolore.
Dopo un po’ è entrato il personale dell’ospedale, ci hanno chiesto di uscire. Abbiamo atteso nell’apposita sala.
Quando ci hanno permesso di rientrare nella camera, mio padre aveva gli occhi chiusi e respirava con la bocca aperta ed aveva la maschera dell’ossigeno. Non si lamentava più. Ho avuto la sensazione che gli avessero somministrato dell’altra morfina. In questo modo è stato sino a quando ha cessato di respirare alle ore diciotto del giorno quindici gennaio. Nello stesso giorno gli avevano prelevato del sangue.
Mi sono posto alcune domande:
Quando, avendone titolo, si chiede un colloquio al medico, per chiedere lo stato di salute di un paziente, questi, anziché essere sintetico nella sua esposizione, pur avendo una memoria di ferro, non dovrebbe prendere in mano la cartella clinica ed esporre la diagnosi, non in base ai ricordi ma soprattutto utilizzando quanto scritto nella cartella? Informando anche sulla terapia erogata e quella presumibile che sarà applicata? In questo caso il familiare verrebbe a conoscenza in modo esatto delle effettive cure che sono fatte e, in alcuni casi gravi, potrebbe anche esprimere il proprio dissenso. Siamo in presenza di persone, non di oggetti!
Mio padre ha sofferto molto, era utile tutto ciò?
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